Per il cane lo spazio è uno strumento per comunicare

I cani non hanno sviluppato un linguaggio parlato, ma questo non significa che la loro comunicazione non sia complessissima.

Fra i tanti canali e strumenti che usano per comunicare, ve n’è uno che passa spesso inosservato, o ignorato. Ed è invece uno dei più importanti del loro linguaggio di specie: lo spazio.

Usare lo spazio per comunicare significa utilizzare la distanza da qualcosa o qualcuno, per esprimere quello che si prova emotivamente o si intende fare. Spazio per allontanarsi da ciò che incute timore o avvicinarsi a ciò che attrae; spazio per allacciare una relazione o chiuderla. Spazio per dichiarare maggiore o minore confidenza.

Spesso noi, delle richieste di spazio del cane non ce ne accorgiamo, tutti presi dalla smania di perfezione e controllo, vorremmo che il cane ci camminasse eternamente al piede. Siamo incuranti delle emozioni che le situazioni in cui lo portiamo gli suscitano, forzandolo ad entrarci in contatto e relazione.

E allora, chi sta tirando al guinzaglio? Lui o Noi?

Vedi sbadigli di ansia, grattamenti di frustrazione, abbai di insofferenza, ringhi di aggressività indistinta verso cose, cani e persone, salti sul proprietario per chiedergli di andare via.

Altri di loro, invece, tristi e rassegnati al fatto che tanto quello che comunicano non è recepito, che la relazione con il loro umano è impossibile perché lui non ascolta mai, manifestano a testa bassa depressione e abulia. Visto che cane tranquillo che ho?

Quando poi sono liberi dal guinzaglio, questi cani vessati non tornano al richiamo volentieri, mettono fra loro e i proprietari più spazio possibile, non lo guardano mai. Non lo accreditano come affidabile. E questo poi lo chiamano poca educazione, problema comportamentale.

Per un cane, la possibilità di usare lo spazio è altrettanto vitale quanto per noi quella di usare le parole.

I cani usano lo spazio per comunicare perché spazio = sopravvivenza per loro. Per una ragione etologica molto semplice: sono predatori, non scimmie come noi. Hanno denti in grado di uccidere, e stare uno a ridosso dell’altro non è affatto una buona idea nella loro mente. Lasciamoli comunicare con lo spazio.

Quando il guinzaglio che usiamo è lungo e ben gestito, sono liberi di comunicare fra loro correttamente ed evitano fraintendimenti; quando li liberiamo, se hanno spazio possono comunicare a distanza, con le marcature, e dirsi cose senza litigare. Gli angusti recinti di sgambo sono i posti dove avvengono più risse fra cani. In un’area grande a loro dedicata, senza confini e recinzioni (ce ne sono anche a Milano nei grandi parchi) i cani non si azzuffano mai. Perché possono usare quello spazio per dirsi: non ho voglia di interagire con te. C’è così tanto spazio che diventa inutile competere anche per il più territoriale di loro. Alcuni cani hanno bisogno di molto spazio per comunicare, per altri pochi centimetri sono sufficienti. Usano lo spazio anche in maniera empatica nei confronti degli altri cani, gli dicono ecco, faccio un passo di lato perché vedo che sei timido, in difficoltà e non voglio pressarti. I cani quando comunicano con lo spazio si intendono, fa parte del loro linguaggio, dategli fiducia. Se non possono, iniziano i problemi.

Se imparassimo a leggerli, ad ascoltarli, potrebbero insegnarci a scendere dal nostro trono di cartapesta di esseri superiori e dominanti e farci scoprire che anche noi avremmo bisogno di prendere un po’ di spazio dal nostro ego per stare meglio.

 

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Il mio cane è arrabbiato con il mondo

“Femmina o maschio che sia, come vede un altro cane parte e non si ferma più di abbaiare, ringhiare, vuol saltargli addosso e sbranarlo…” oppure “ne ha terrore e vuole allontanarlo minacciandolo.” “Con le persone il mio cane è tremendo. Ringhia e cerca di aggredire tutti.” “Non posso portarlo in quella strada, appena sente il rumore del tram impazzisce e diventa incontenibile. Faccio fatica a trattenerlo.”

Perché?

Il motivo di questo comportamento si chiama DISAGIO RAPPRESENTAZIONALE

Non esistono enti o eventi stressanti di per sé, perché il valore rappresentazionale che viene loro attribuito dipende dalla valutazione del singolo individuo.

Quando abbiamo un cane a cui sono mancate esperienze adeguate e non ha potuto formarsi rappresentazioni corrette del mondo, non è in grado di valutare correttamente  altri cani, persone o situazioni. Pertanto, il suo comportamento appare impulsivo e privo di controllo.

Il comportamento di risposta viene attivato da due fondamentali risorse cognitive: l’APPRAISAL (la capacità di valutare un ente o un evento) e il COPING (la capacità di farvi fronte).

Come noi, anche il cane prova delle emozioni. Ma queste emozioni non sorgono di botto in reazione agli stimoli che il cane percepisce: le emozioni sono frutto dell’attività di coscienza (cognizione) e di valutazione (appraisal) della situazione in riferimento ai propri significati, interessi e scopi. In una frazione di secondo il cervello opera perciò alcune valutazioni prima di provare l’emozione e scegliere la risposta.

La prima valutazione, detta APPRAISAL PRIMARIO, è strettamente evolutiva, di sopravvivenza: “questa situazione, questo cane o persona, costituisce una minaccia o no?”

  1. Se la mente valuta che non si tratti di una minaccia, la risposta è l’ASSENZA DI STRESS, che produce AVVICINAMENTO, voglia di relazionarsi con l’ente ed EMOZIONI POSITIVE.
  2. Se la mente invece valuta che si tratti di una minaccia, passa a una seconda valutazione, detta APPRAISAL SECONDARIO, che richiede una valutazione delle proprie risorse di COPING, ovvero delle proprie capacità psicologiche e fisiche di far fronte alla minaccia.
  • Se le proprie risorse di coping sono scarse, il cane percepirà sé stesso come INCAPACE di affrontare la situazione la risposta sarà il DISTRESS (stress negativo), vivrà dunque emozioni negative e potrà reagire in tre modi, ALLONTANAMENTO dal pericolo, IMMOBILIZZAZIONE, ATTACCO, in maniera impulsiva, NON RIUSCENDO AD ATTIVARE GLI AUTOCONTROLLI.
  • Se le proprie risorse di coping sono sufficienti il cane percepirà sé stesso come CAPACE di affrontare la situazione, la risposta sarà l’EUSTRESS (stress positivo), vivrà magari emozioni negative, ma cercherà delle strategie di COPING per far fronte al problema: ATTIVERÀ QUINDI GLI AUTOCONTROLLI. Per cui cercherà di comunicare con l’ente mettendo in atto dei segnali adeguati e un comportamento coerente con la situazione, che può anche essere il non interagire.

Il comportamento impulsivo e senza autocontrolli rivela perciò nel cane una carenza di senso di autoefficacia e di autostima, poche esperienze messe a bagaglio nel passato.

Le RAPPRESENTAZIONI che il cane si è potuto costruire giocano infatti un ruolo chiave nel suo modo di esprimersi.

Il cane costruisce il suo patrimonio rappresentazionale attraverso processi di apprendimento che si verificano ancor prima della nascita. Dopo la nascita, i processi che favoriscono la costruzione di conoscenze sono due:

  • il PROCESSO DI ATTACCAMENTO che rafforza la PROPENSIONE ALL’ESPERIENZA.
  • i PROCESSI DI SOCIALIZZAZIONE che mettono il cane a contatto con i referenti esterni realizzando le OCCASIONI ESPERIENZIALI.

Quando notiamo nel cane questo tipo di problemi dobbiamo riferire il suo comportamento a qualcosa che non ha funzionato in questi due processi nella sua infanzia.

Ma attenzione! LA RELAZIONE CON IL PROPRIETARIO è altrettanto importante, perché può agire:

  • da induttore di esperienze, portando il cane a contatto col mondo esterno
  • da facilitatore di esperienze, svolgendo un ruolo tutoriale e di mediazione

Cani deprivati di esperienze, sempre in braccio, interdetti a socializzare con altri cani o persone hanno conseguenti improprietà relazionali, e sono portati ad atteggiamenti EGOCENTRICO-IMPULSIVI.

Se il proprietario (e il proprietario non è un istruttore e non può sapere queste cose) non si rende conto che il cane ha avuto un danno cognitivo prima dell’adozione e nella relazione con lui si trova a vivere situazioni costantemente incoerenti che non gli consentono di far tesoro dell’esperienza, il cane non può che peggiorare:

  • si consentono al cucciolo comportamenti che poi da adulto gli vengono vietati
  • non si capisce che per il cane il gioco è una cosa seria che consente l’apprendimento dei propri stili
  • si pretende di dare un’abitudine che poi si mette in discussione in circostanze particolari
  • si insegnano cose sbagliate per errori di indicazione, di premio, di conferma, di permesso
  • ci si comporta in modo umorale: di fronte a un comportamento una volta si ride, un’altra si rimprovera. Non si capisce che il cane apprende anche dai nostri comportamenti
  • si pretende che il cane affronti situazioni onerose senza aver prima creato step acquisitivi
  • si fanno marcare negativamente esperienze che invece vorremmo fossero affrontate dal cane con calma
  • non si porta mai il cane a contatto con una situazione e poi vorremmo che il cane l’affrontasse con tranquillità
  • si pensa che il cane abbia di una situazione le stesse nostre rappresentazioni umane e poi ci si meraviglia se non è così
  • si danno indicazioni riferite al mondo che il cane non capisce o peggio equivoca a causa della nostra comunicazione sbagliata. La comunicazione dei cani è diversa dalla nostra.

In questi casi non serve portare il cane dall’addestratore, non si addestra un cane con un disagio. Serve un istruttore CZ che sappia cosa fare e vi segua in un percorso dandovi competenze e ricostruendo le rappresentazioni del cane attraverso un lavoro particolare.

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Siamo sicuri che al cane facciano bene solo le passeggiate nel verde?

Premesso che le passeggiate nel verde ai cani fanno bene eccome, siamo sicuri che le passeggiate in città facciano davvero male? Dipende.

Perlustrare, prendere odori e annusare marcature è un toccasana, soprattutto se i cani sono agitati, inquieti, hanno difficoltà a controllarsi o gli fate rincorrere troppe palline (moderazione con quelle, con certe razze il rischio di fissità cognitiva è dietro l’angolo).

Detto questo, per capire meglio cosa rappresenta per il cane la passeggiata, bisogna anche fare un ragionamento su quello che sono i cani. Come sapete i cani sono animali sociali, questo significa che hanno bisogno di relazioni sociali e di far parte di un “branco” e di definire un proprio territorio.

Questo territorio nella mente del cane è suddiviso in aree che, come cerchi concentrici, si allargano e definiscono le dinamiche sociali: ovvero come si sta e cosa si fa o non si fa in ognuna di esse.

Queste aree variano di dimensione in relazione alle rappresentazioni che il cane si fa degli spazi in cui vive, a causa di abitudini, possibilità, spazi disponibili, emozioni, motivazioni individuali e di razza, ecc… Le dinamiche sociali sono caratterizzate da espressioni comportamentali guidate dalle rappresentazioni.

Le rappresentazioni mentali definiscono infatti il modo in cui ci comportiamo: sono mappe, significati, regole, che possono assumere valenza positiva o negativa a seconda delle emozioni provate nel fare un’esperienza.

Quando parliamo di pet però, dei nostri cani di casa, è importante capire che non si tratta di cani che vivono allo stato libero, cani di villaggio o cani selvatici, e che sebbene nel loro DNA gli schemi sociali siano i medesimi, le possibilità che la vita in cattività offre loro sono di gran lunga inferiori. L’autonomia e la capacità di far fronte ai bisogni primari (cibo, acqua, riproduzione, sicurezza) sono tutte demandate a noi. L’unica cosa che resta loro è la socialità. Vogliamo privarli anche di quella?

Nella mente del cane dinamiche sociali e territorio sono due cose legate a doppio filo. Vediamo come sono strutturate

  • La prima area, la più ristretta è detta zona intima , potremmo vederla come la sua cuccia, le zone di relax di cui dispone in casa, che condivide solo con il partner, se ce l’ha, e con i membri del gruppo affiliativo: voi.
  • L’area immediatamente intorno è detta zona individuale, può essere la casa stessa ma a seconda di come viene gestito il cane e degli spazi che ha a disposizione, può allargarsi al giardino o al cortile. Qui il cane esercita in genere il controllo e la protezione del territorio: se è la casa avviserà abbaiando che arriva qualcuno, se è il giardino o il cortile farà lo stesso ma magari, potendolo vedere, passerà a un modale più aggressivo per allontanare lo sconosciuto. Attenzione a lasciare i cani sempre soli in giardino, senza risorse, un posto al chiuso e acqua. Non lamentatevi se poi li vedete rincorrersi la coda e non sapete perché.
  • Vi è poi un’area detta zona sociale, immediatamente esterna alla precedente, nella quale il cane intrattiene relazioni sociali con gli altri cani e le persone che incontra ma può anche entrarvi in conflitto. Quest’area è idealmente la sua home range: il suo quartiere, i giardini, l’area cani, i luoghi che è solito frequentare in un raggio di 500 metri circa da casa. Fin da quando è cucciolo è bene portare il cane a visitare tutto il quartiere dove si abita, o la zona immediatamente adiacente alla casa, perché attiva una importantissima parte delle rappresentazioni: la mappatura. Il cane è un animale territoriale e ha bisogno di mappare il territorio della propria home range. Un cane che non conosce bene la propria home range è un cane che non ha sicurezze, che finisce poi per diventare territoriale a sproposito, dove non è necessario esserlo. Il cane marca quest’area con orina e deiezioni nelle quali mette informazioni su chi è, qual è la sua età, il suo sesso, il suo stato riproduttivo e quello psico-fisico: malattie ed emozioni che vive in quel momento. Lascia così informazioni alla popolazione di cani della sua home range e prende informazioni dai messaggi lasciati dagli altri. La sua passeggiata urbana è come la nostra lettura quotidiana delle notizie. Escludere il cane dall’informazione sociale non permettendogli di marcare o di annusare le marcature degli altri è una gravissima forma di maltrattamento che porta a problemi psichici che poi trovano sfogo in espressioni comportamentali di disagio anche gravi.
  • Al di fuori di quest’area sta la Terra di Nessuno, la zona pubblica. In quest’area le interazioni sociali sono ridotte al minimo indispensabile, l’attenzione si alza sia per cogliere nuove opportunità sia eventuali antagonisti o problemi, si possono lasciare informazioni, ma difficilmente il cane va oltre la comunicazione indiretta delle marcature, se non fortemente motivato, emozionato o invitato all’interazione. È un’area da scoprire, sconosciuta, che attiva le motivazioni perlustrativa, esplorativa, di ricerca, ma attiva anche l’attenzione e la concentrazione del cane che ha bisogno di farsene delle rappresentazioni. Per questo sia che il cane si muova in zone verdi sia che si avventuri in un contesto urbano, è molto utile portarcelo di tanto in tanto, a scoprire cose nuove, perché questa attività favorisce la calma, gli autocontrolli, la flessibilità mentale e la riflessività. Il cane che vive solo la sua home range ha poche possibilità di fare nuove esperienze e di conseguenza di acquisire nuove competenze. Portare il cane in posti nuovi e sconosciuti, fin dalla preadolescenza, vale a dire dopo il quarto mese di età, attiva le funzioni logiche (discriminare, distinguere, categorizzare, generalizzare, unire, separare, correlare…) e le metacomponenti cognitive della mente (memoria, attenzione, concentrazione, autocontrollo, la capacità di affrontare l’apprendimento, la capacità di seguire un percorso mentale di soluzione dei problemi).

Attenzione però al tipo di rappresentazioni che il cane si può fare in un posto nuovo e sconosciuto, in zona pubblica cioè. Se lo portate al centro commerciale o al mercato rionale, in mezzo alla folla vociferante e agitata, il cane non si farà rappresentazioni positive, vivrà solo ansia e non imparerà nulla. A meno che non sia il cane dell’ortolano della bancarella che da quando è nato sta nei mercati, la marcatura emozionale e la conseguente rappresentazione che si farà di quel nuovo posto sarà negativissima. Se lo portate in un parco lontano da casa e incontra un altro cane che lo invita a giocare e decidono di svagarsi insieme e conoscersi, questa è una rappresentazione positiva di quel posto. Se durante la passeggiata urbana in zona pubblica fra marciapiedi, pali, bidoni e odori nuovi vi fermate ai tavolini all’aperto di un bar a riposare e incontra sconosciuti con i quali relazionarsi positivamente (persone o cani), è una bella esperienza che si porta a casa. Se però è un cane che proviene da zone rurali e manifesta paura per l’ambiente nuovo, avrà bisogno di abituazione graduale. Fate attenzione ad esporlo immediatamente alla zona pubblica urbana. Arrivateci un po’ a gradi, allargando di un po’ ogni giorno i confini delle vostre passeggiate senza grossi sbalzi, dalla zona intima a quella pubblica, mantenendo sempre un atteggiamento sicuro e positivo, senza forzarlo mai, invitandolo piuttosto alla scoperta, tutelandolo dalle zone rumorose o troppo pregne di odori e traffico, altrimenti farete crescere il suo problema. E se il problema persiste, io resto qua, a vostra disposizione.

Due piccoli consigli:

Durante la passeggiata urbana vi consiglierei di utilizzare un bel guinzaglio fisso (non il flexi) lungo almeno tre metri, del tipo con due moschettoni, che all’occorrenza può essere raddoppiato e portato al metro e mezzo regolamentare in città; nel verde, se non è possibile lasciarlo libero o avete ancora paura a sguinzagliare il cane, usate una bella longhina di 10/15 metri.

Concludendo, con le dovute attenzioni alle esperienze che facciamo fare al nostro cane e tenendo conto di chi è, la risposta alla domanda del titolo potete darvela anche voi.

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Il cane e i confini relazionali

Torno ancora su questa cosa che i cani ci sembrano spesso più empatici di noi, in una relazione sanno dare sé stessi in una forma totale rispetto a noi.

La domanda che continuo a farmi è: cosa li differenzia da noi realmente nel modo di vivere la relazione?

Che i cani diano maggior peso all’aspetto relazionale piuttosto che a quello individuale, è una cosa assodata che chiunque abbia un cane o lavori con i cani sa benissimo. Senza andare nella narrazione pietistica e un po’ usata del cane che dà la vita per il suo “buon padrone” o per colui che non se lo meritava, è abbastanza evidente etologicamente che il cane, animale sociale, dia grande peso alla socialità: senza un ruolo all’interno di un gruppo non riesce a stare. Né fra cani è tollerato che nel gruppo vi sia un individuo senza un ruolo. Del resto, il cane non accredita nemmeno noi umani come membri reali di un gruppo, se non dimostriamo di avere un ruolo funzionale ad esso. Ma questo spiega solo dinamiche sociali evolutive che si sono affermate in centinaia di migliaia di anni per garantire la sopravvivenza del branco.

I cani sono animali sociali. Anche noi lo siamo. Per loro come per noi, le relazioni rappresentano sopravvivenza. Però, è sempre così dannatamente evidente che in noi, in quasi tutte le faccende della vita, l’aspetto egoistico prende sempre un peso maggiore rispetto a quello altruistico.

È un problema morale, quindi culturale? Anche i cani, come noi, sono animali culturali, anche per loro esiste il senso morale della giustizia: nel gioco, per esempio, si danno regole di fair play: “chiedi prima, sii onesto, rispetta le regole, ammetti i tuoi errori.”(Mark Bekoff, 2018 – Nella mente e nel cuore dei cani). Naturalmente fra di loro c’è chi infrange queste regole. Il problema è che però se le infrange subisce l’ostracismo sociale. È fuori. Noi oggettivamente transigiamo molto di più.

Ci deve essere qualcos’altro che fa la differenza, qualcosa di più intimo nella mente dei cani.

Si tratta di possedere un IO relazionale? Anche noi lo abbiamo, siamo anche noi capaci di empatia e di considerare il valore delle relazioni, vuoi opportunisticamente vuoi in maniera disinteressata. In questo non differiamo da loro.

Hanno un IO collettivo? Anche noi lo abbiamo, anche se uomini o cani non ce l’hanno a livello di certi animali come i pesci, le api, gli storni, che sono capaci di passare all’unisono in modalità collettiva muovendosi come fossero un unico essere. È una cosa molto più inconscia la nostra e quella dei cani.

I cani hanno un EGO più debole del nostro? Non penso proprio: hanno anche loro motivazioni autoriferite, che li spingono a soddisfare i loro bisogni individuali, come possedere oggetti o qualcuno, difendere il proprio territorio, raccogliere cose e nasconderle in un luogo sicuro, studiare nel dettaglio le cose, conoscere il proprio corpo; vivono emozioni riferite a sistemi evolutivi mirati alla sopravvivenza e alla preservazione non solo della specie, ma di sé stessi, come la paura e la collera. Sono individui anche loro, sanno benissimo di esserlo. E sono opportunisti anche più di noi, a volte.

Dove finisce però per loro quel confine che ci separa dall’altro all’interno di una relazione? E come i cani vivono questa barriera invisibile?

La risposta migliore che ho trovato è questa: Noi umani, in una relazione, abbiamo un grande timore di aprire il nostro mondo all’altro, di comunicare chi siamo davvero, perché abbiamo il timore di perdere la nostra identità, di non essere più padroni di noi stessi, di arrivare a confondere il nostro benessere con quello degli altri. Per cui percepiamo i confini relazionali come più “presenti”. Il termine confini relazionali non si riferisce alla separazione individuo-ambiente, bensì alla funzione psicologica di limitare l’organismo, contenendolo e proteggendolo, e allo stesso tempo metterlo in contatto con l’esterno. L’esperienza dell’incontro è la funzione propria di tale confine.

Ecco, io trovo che questa cosa i cani non ce l’abbiano. Sono più permeabili, hanno meno paura di perdersi e di darsi. Sono più connessi di noi con il tutto, anche i sensi che posseggono, che permettono loro di percepire il mondo e l’altro, sono infinitamente più potenti e vasti dei nostri, basti pensare alla loro capacità di percepire perfino le emozioni dei loro interlocutori. Per i cani,  quindi, non ha nemmeno tanto senso avere confini relazionali così presidiati dall’ego.

 

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L’abbandono è un incubo. Oltre che un reato

È il titolo della campagna promossa dalla Federazione Nazionale Ordini Veterinari Italiani (FNOVI) in collaborazione con il Ministero della Salute. Visto che le leggi e le sanzioni non bastano, si fa leva sulle emozioni, cercando di far cambiare prospettiva a chi si accinge a commettere questo reato, mettendolo nei panni del cane. Scopo della campagna è infatti aiutare chi desidera adottare un cane o educare chi ne ha già adottato uno a scelte più consapevoli, puntando anche sui giovani e i bambini.

Il problema degli abbandoni, che si ripresenta puntuale ogni estate, non è marginale: stiamo parlando in media di 80.000 gatti e 50.000 cani ogni anno.

Manuela Michelazzi, etologa spiega: “I pet spesso vengono scelti di slancio, senza la consapevolezza di cosa significhi prendersene cura. Una scarsa cultura del possesso responsabile sta causando la crescita costante dei casi di abbandono. Il problema è antico ma negli ultimi due anni è cresciuto di pari passo all’aumento di persone che hanno scelto di adottarli”. (fonte ANSA)

La pandemia, infatti, ha spinto molte persone a cercare di combattere il senso di solitudine adottando un cane. Spesso anche scaricando sul cane le proprie insicurezze e per colmare le proprie carenze d’affetto, che non è esattamente quello di cui un cane dovrebbe farsi carico in una relazione. I cani sono empatici ma non sono psicoterapeuti.

Adesso, con l’allentarsi delle restrizioni anti-covid, le persone improvvisamente si accorgono di non essere preparate all’impegno che adottare un cane comporta, e lo abbandonano.

Così ce li ritroviamo sulle strade, legati al guard-rail nel “migliore” dei casi se non investiti, in preda al panico, all’angoscia o alla depressione. Vengono rinchiusi in un box di canile, senza capire perché gli è stato fatto questo, dov’è la persona in cui riponevano amore e fiducia, e dovranno riiniziare un percorso da capo, con un istruttore pieno di pazienza, senza alcuna certezza che il trauma si risolva, perché l’aiuto dell’istruttore in canile non può certo sostituire una relazione; non deve tra l’altro sostituirla, altrimenti se poi va in adozione ecco che arriva un nuovo abbandono. Ho lavorato con cani che hanno subito abbandoni multipli, e ogni volta il processo di ricostruzione di una relazione è più lungo e più difficile.

Il cane vive l’abbandono come un trauma pesantissimo. Oltre a essere un essere senziente è un’animale sociale, e il rifiuto proprio da parte di chi lo ha accolto e nel quale stava riponendo fiducia, alle volte provoca stati depressivi irreversibili. Rifiutato dal proprio gruppo, il cane di colpo perde tutti i punti di riferimento e precipita in incubo senza soluzioni.

Serve una cultura più responsabile sulle adozioni, serve capire che i percorsi di preaffido e controllo fatti dai canili e dalle associazioni serie non sono una “seccatura”, ma una garanzia per chi adotta e per il cane. Scegliere un cane da un post non verificato su internet, magari vi fa avere il cane in tre giorni. Ma quale cane?

I cani presi su internet a caso, all’80% vanno a finanziare il business della criminalità organizzata. Cani affetti da malattie incurabili che poi vi costeranno una fortuna di veterinario, cani tolti alla madre a un mese che non hanno concluso il processo di attaccamento e non hanno imparato nessun tipo di socialità.

Su tutti gli annunci si leggono le stesse cose, fatevi un giro: se non li adottate subito saranno investiti o soppressi. Non si sopprimono più i cani in Italia da decenni, per legge. Sono tutti “incroci labrador” (perché si sa che i labrador sono “buoni”) o cani di piccola/media taglia, salvo che poi a un anno e mezzo pesano 80 chili e mangiano quanto tutta la famiglia messa insieme.

Spessissimo vi consegnano cani fobici, che non riuscite nemmeno a far uscire di casa per fare i bisogni, che poi finiscono sotto fluoxetina a vita.

Cani con problemi di insicurezza e iperagitazione da deprivazione materna, strappati alla madre a un mese per farla riprodurre di nuovo in un ciclo continuo di stupri.

O peggio, cani ferali, animali selvatici (non cani abbandonati o randagi o di villaggio), catturati in natura, che non hanno alcuna buona rappresentazione dell’uomo e che per il disagio della perdita della libertà vi distruggono casa. Esistono, anche in Italia, in Sicilia per esempio. Leggetevi gli studi di Bonanni, le ricerche di Stray Dogs International. Un cane ferale non è un cane randagio o abbandonato: è come una volpe, un tasso o un lupo. Non è adottabile ne domesticabile.

Quello che ho fatto non è un elenco di casi rari: è la fotografia dell’80% delle adozioni fatte dai post anonimi su internet senza criterio. Se vi è andata bene siete voi il caso raro.

Se un cane con problemi pesanti simili è già stato adottato ed è troppo tardi, ricordo a chi non lo sapesse, che invece di commettere il reato di abbandonarlo, può portare il cane in canile e firmare un atto di rinuncia, invece di lasciarlo in pericolo su una strada.

Purtroppo, molti di coloro che adottano cani a caso su internet, spesso non li “chippano” e non avendo documenti legali del cane da presentare a un canile per il passaggio in caso di rinuncia, temendo sanzioni, li abbandonano in strada. Altri, non li chippano apposta, mettendo in conto fin dall’inizio l’opzione dell’abbandono.

Sono sicuro che se state leggendo questo blog non siete persone del genere.

Il risultato che peggiora di anno in anno è che i canili straripano di rinunce e recuperi di cani abbandonati in stato di grave disagio.

Come far cessare questa situazione tremenda? Qualcosa possiamo fare tutti.

Se volete adottare un cane, siate certi di avere il tempo per occuparvene, sappiate che è un impegno per 15-20 anni se è un cucciolo; perciò se non avete questo tempo davanti a voi, adottate un cane anziano. E soprattutto non fatelo perché avete bisogno di RICEVERE affetto e compagnia ma perché avete bisogno di DARE affetto e compagnia.

Lasciate perdere i post strappalacrime che alimentano solo la tratta di animali (spesso, per carità, anche utilizzando volontari di buon cuore ignari di cosa c’è dietro) e rivolgetevi a una struttura seria, canile, rifugio o allevamento, che vi segua, nella scelta del cane più adatto a voi con un percorso di pre-affido e post-affido attraverso personale professionista, che ha titolo. Se dietro un post non riuscite a rintracciare una struttura ufficiale, lasciate perdere.

Fate in ogni caso, non appena avete il cane in adozione, un percorso con un educatore cinofilo che imposti la vostra relazione. Il tempo che vi dedica il canile nel percorso preadottivo e successivi controlli non può essere sufficiente anche a questo.

Non sono fastidi questi, sono il presupposto per non avere più abbandoni-incubo in Italia e la vostra garanzia per una relazione di qualità con il vostro amico a quattro zampe.

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Cani e parole al vento. Servono più emozioni.

Una ricerca dell’Università di Washington pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences, afferma che il “parentese” aiuta lo sviluppo linguistico del bambino.

Parentese è un termine inglese che deriva da parents cioè genitori, che indica quel modo di parlare che i genitori di praticamente ogni parte del mondo adottano in maniera istintiva con i propri bimbi in tenera età, qualunque sia l’idioma parlato. Non il cosiddetto “baby talk” cioè quel parlare “sciocco” pieno di suoni senza senso che si accompagna alle coccole, ma un linguaggio corretto grammaticalmente, molto semplificato, che usa un tono di voce che tende ad enfatizzare le parole.

Lo studio ha anche rivelato perché il parentese funziona: si credeva che fosse la semplicità del linguaggio a rendere più semplice ai bambini l’apprendimento, invece pare la ragione risieda nella qualità del tono della voce. Toni più acuti e tempi più lunghi, per esempio, agganciano meglio il cervello del bambino, ne catturano meglio l’attenzione, in pratica il bambino è più socialmente coinvolto.

Noi umani, come anche altre specie, annoveriamo fra le nostre motivazioni il maternaggio, cioè quella motivazione che ci spinge a prenderci cura non solo dei nostri cuccioli, ma anche di quelli delle altre specie; tendiamo quindi a usare il parentese anche con gli animali che adottiamo, spesso trattandoli come cuccioli anche da adulti.

Non c’è molto da stupirsi, la maggior parte degli spot pubblicitari in tv utilizza questa tecnica con milioni di persone maggiorenni e vaccinate per cercare di vendergli qualunque cosa.

Così eccoci qua a trattare il nostro cane come i nostri figli. “Vie-ni-quiiii…” scandiamo con tono acuto e gioioso al cucciolo che ci guarda. E spesso funziona. Ma perché?

La risposta probabilmente sta nella correlazione fra vocalizzazione ed emozioni, e questo aspetto riguarda lo sviluppo cognitivo di tutti gi animali, umani e non umani.

Ora, per quanto riguarda gli effetti della voce umana sugli animali, in particolare i cani, diversi studi hanno dimostrato che toni di voce alti eccitano e catturano l’attenzione, toni di voce bassi invece calmano e rilassano.

Osservo spesso persone fare lunghi discorsi al proprio cane, molte di loro assolutamente convinte che il cane capisca ogni cosa che dicono.

È difficile far loro capire che i cani, animali non umani, non hanno sviluppato un linguaggio parlato; comunicano con il proprio baricentro, le posture, la mimica facciale, le traiettorie, le coreografie, gli spazi, i feromoni e il paravocale.

Ed è proprio il paravocale ciò che i cani comprendono meglio dei nostri discorsi.

Le persone che affermano che il loro cane comprende perfettamente qualunque loro discorso, in genere sono molto affettate ed espressive nella comunicazione con il loro cane, colorano di emozioni il loro eloquio con i loro amici a quattro zampe. Per questo il cane le capisce.

A prescindere dall’aver sviluppato un linguaggio parlato, anche noi umani abbiamo mantenuto l’uso del paravocale.

I versi li facciamo anche noi: i mugugni quando ci svegliamo la mattina e ci stiriamo, i borbottii di disapprovazione, i sospiri d’ansia, gli sbuffi di noia, i mugolii di piacere, i ringhi di fastidio, le grida di dolore, le vocalizzazioni di spavento, le interiezioni, e via dicendo, sono tutte espressioni paravocali delle emozioni che stiamo vivendo.

Quando noi parliamo però, queste espressioni sono meno esplicite ed isolate, rimangono nel tono di fondo delle frasi. Diventano il colore espressivo della voce. Sospiriamo una frase, sussurriamo le parole, le scandiamo con rabbia, addolciamo o induriamo il tono della voce, lo alziamo e rinforziamo il nostro eloquio con i gesti. I cani fanno il contrario, rinforzano i loro gesti con il paravocale. Perché la grammatica del loro eloquio è non verbale.

Il cane, quando ascolta la nostra voce, ricerca in essa proprio quel sottofondo paravocale emotivo che colora i nostri discorsi: toni ed enfasi.

E come ho spiegato in altri post, utilizza anche il paraolfatto (l’organo di Jacobson) per sincerarsi che le emozioni che traspaiono dal nostro paravocale siano coerenti con i feromoni che emettiamo.

Dei nostri lunghi discorsi è questa emissione paravocale e paraolfattiva di emozioni quello che afferra, e cerca di associarla ai nostri gesti e ai nostri movimenti per comprendere il significato di ciò che diciamo.

Se infatti restiamo immobili e parliamo come robot, per lui risultiamo incomprensibili, e ci guarda interrogativo con la testa piegata da un lato. Fate una prova.

Alcuni obiettano che i cani possono apprendere il significato di migliaia di nostre parole, hanno una memoria molto buona. Sanno cosa significa pappa, ciabatta, zio Francesco, usciamo, piove, c’è caldo, ecc.

È vero, si tratta però di fonemi comunicativi non universali ma limitati alla relazione fra noi e il nostro cane. I cani associano il suono di una parola a un ente e, se l’associazione è ripetuta, la ricordano.

È un po’ più difficile però che comprendano il significato e la sintassi di una conversazione complessa. Possono saltargli all’orecchio alcune parole che conoscono e che li attivano.

Se io dico alla mia compagna “Non è il caso che domani ANDIAMO AL PARCO perché probabilmente pioverà”, il mio cane in genere si mette a saltellare e scodinzolare. Quello che gli è arrivato è solo “andiamo al parco”. Perché ogni volta che lo ha sentito dire poi ci siamo andati. La negazione iniziale gli è sfuggita come tutto il contesto della frase.

Inoltre, ognuno costruisce patti comunicativi differenti con il proprio cane. Un cane abituato ad associare al fermarsi la parola “stop”, probabilmente non capirà “fermo”. Se però il “fermo” non sarà detto con un tono di voce robotico, ma ci metteremo dentro un po’ di allarme, ecco che forse il cane si fermerà e ci guarderà.

Detto tutto questo, i cani sono eccezionali: sono almeno 36.000 anni che studiano il nostro linguaggio, da quando le nostre specie hanno deciso di condividere la loro vita. Noi in tutto questo tempo, abbiamo cominciato a cercare di capire il loro solo negli ultimi decenni del secolo scorso. Un po’ in imbarazzo dovremmo sentirci.

E allora, come possiamo fare a essere chiari e farci capire meglio dal nostro cane?

Dobbiamo prima di tutto usare i nostri gesti, posture e movimenti, perché se restiamo immobili mentre gli parliamo, il cane non ha nessun parametro non verbale da associare alle nostre parole, o meglio, alle sfumature emotive del nostro paravocale.

E dobbiamo colorare le nostre parole di emozioni.

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Perché il mio cane mi porta oggetti?

Non stiamo parlando di riporto di palline.

I cani comunicano usando il corpo, gli spazi e le risorse…

Un cane perciò può usare degli oggetti-simbolo per comunicare con voi e farvi delle richieste o mettere in discussione alcuni aspetti della vostra relazione.

Un simbolo è il risultato di una rappresentazione mentale, che può essere innata, ovvero legata al DNA di specie, oppure acquisita attraverso abitudini che il cane ha sviluppato con voi nel corso della relazione.

A livello di rappresentazioni mentali innate, per Il cane, che è un predatore, una pallina, un pupazzo di pelouche con la forma di un animale, una treccia per giocare a tira e molla, possono essere rappresentazioni che sostituiscono la preda e simboleggiare quindi cibo, possesso, predazione, competizione sulle risorse.

A livello di rappresentazioni acquisite nel corso della relazione, essendo il cane un animale sociale, gli stessi oggetti-simbolo possono avere anche valori particolari, diversi da quelli ancestrali, più legati agli schemi e alla qualità del vostro rapporto, alle regole e alle abitudini che lo definiscono.

Gli stessi oggetti-simbolo inoltre, usati in contesti differenti, anche in base a chi è il vostro cane, alla sua età e a molti altri fattori, cambiano il significato della comunicazione.

Per capire il significato che il cane vuole dare all’oggetto non bisogna quindi basarsi solo sul simbolo (l’oggetto che usa) ma anche sugli spazi e il contesto in cui li usa (quando, a che distanza da voi lo propone, dove lo mette, come lo usa, cosa è successo immediatamente prima).

Facciamo degli esempi pratici, presi dalla mia esperienza professionale:

Quando vi porta le ciabatte sul letto la mattina presto, probabilmente quello che il cane vuole dirvi è alzatevi e portatemi fuori, mi scappa. In altri orari della giornata alcuni cani possono dirvelo prendendo il guinzaglio o le scarpe e portandoveli. Portarvi le ciabatte al vostro rientro a casa è invece un modo per dirvi: restate qui. Sottrarvele e portarvele via è un modo per aprire una competizione di tipo ludico con voi: prova a prendermi. Oppure potrebbe voler scambiare un oggetto che ai suoi occhi ha un certo valore per voi con del cibo. Tutto ciò che indossiamo o teniamo in mano per il cane assume valore. Per questo i cani ci fregano i calzini.

Se vi portasse un ossetto da masticare mentre state leggendo un libro in poltrona, e ve lo lasciasse cadere davanti, potrebbe semplicemente voler aprire una finestra collaborativa o condivisiva con voi. Probabilmente si sta annoiando e vuole fare qualcosa con voi. Potete reggergli l’ossetto mentre lo mastica, o alzarvi e giocare con lui se vedete che non vuole quello, o portarlo fuori a passeggiare. La masticazione di oggetti resistenti ha un valore di scarico dell’inquietudine, calma il cane. Potrebbe anche essere che voglia dirvi che si sente un po’ inquieto per qualcosa.

Se il cane prende un pupazzo di pelouche e lo mette vicino o dentro la ciotola della pappa vuota, il significato può essere dammi da mangiare, ho fame. Il cane però può usare anche sé stesso come oggetto-simbolo: sedendosi a fissarvi vicino alla ciotola vuota (altro oggetto-simbolo) vi comunica la stessa cosa. Il cane usa una sintassi associativa fra simboli e contesti per comunicare. Se si siede vicino alla porta, vuole uscire.

Se però mettesse il suo gioco preferito vicino o addirittura dentro a una ciotola piena, probabilmente starebbe comunicandovi possesso sul cibo. Un modo ancora gentile di dirvi che è lui a voler gestire il suo cibo. La fase successiva è però quella del ringhio per non farvi avvicinare al suo cibo. Valutate se volete arrivarci e chiedetevi come mai il cane ha bisogno di comunicarvi tutto questo possesso sulle sue risorse. Vi ha accreditato come il coordinatore? O andrebbe educato alla condivisione? Le risposte stanno nel tipo di relazione che avete costruito con lui.

Quando il pupazzo di pelouche ve lo porta sul letto dove state riposando, potrebbe non essere solo un invito a giocare. Come abbiamo visto, se il contesto cambia, cambia il valore del simbolo.

Il vostro letto è un luogo di riposo solo vostro, o a volte lo condividete con il cane? Il luogo di riposo per i cani ha un valore fortissimo di affiliazione, ma può diventare oggetto di competizione se non è chiaro il vostro posizionamento sociale nel gruppo.

Un cane che porta un simbolo di competizione sul vostro luogo di riposo, dunque, potrebbe anche voler aprire una competizione con voi. Desiderare un chiarimento sul vostro status o sul vostro ruolo nel gruppo. Potrebbe significare “Voglio competere con te per questo posto di riposo”.

Quindi conviene alzarsi ed eventualmente aprire un’interazione competitiva con il pupazzo, ma in un contesto diverso, con un significato più condiviso e sociale, come il soggiorno per esempio.

In questo modo dite al cane: “Il mio posto di riposo non è in discussione fra me e te, se vuoi starci a riposare con me puoi; tuttavia, ti dico che se vuoi competere con me lo facciamo da un’altra parte, con un significato diverso, più condivisivo.”

Possesso e competizione vengono così slittati in un contesto ludico di condivisione. Il gioco è fatto di regole, attraverso il gioco si apprendono le regole.

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Il cane, noi e il ruolo.

Il cane è un animale sociale. Per stare bene deve sentirsi parte di un gruppo. I cani selvatici, i cani di villaggio, i cani randagi vivono in branchi. E in un branco, ogni individuo ha un ruolo.

C’è il leader, o meglio, il coordinatore: l’individuo, maschio o femmina che sia, più autorevole e competente -non quello più autoritario e cattivo- quello che dice al branco quando si sta, quando ci si muove, dove si va, quello che dirime i conflitti, quello che gestisce le risorse per il branco con equità e nel rispetto delle gerarchie, e in quest’ordine gerarchico i cuccioli vengono privilegiati, perché sono il futuro del branco. Ci sono poi le sentinelle, che avvisano se qualcuno viola il territorio controllato. Ci sono i bracci armati, quelli che hanno la stazza e la sicurezza per prendersi il compito di allontanare gli intrusi. Ci sono le tate a fare scuola, in genere giovani maschi o femmine più adulte che hanno la vocazione innata di accudire i cuccioli e insegnargli come si sta al mondo e a non cacciarsi nei guai. Ci sono i perlustratori, quelli che hanno un olfatto fine e sanno trovare le spazzature più ricche di cibo per tutti.

Ma attenzione: nessun ruolo è per sempre, bisogna dimostrare ogni giorno al branco la propria competenza. Il branco ti testa ogni giorno, nessuno è assunto a tempo indeterminato. Perché in gioco c’è la sopravvivenza stessa del branco, non noccioline.

Quando noi adottiamo un cane, il cane ripete questi schemi ancestrali cercando all’interno della famiglia umana adottiva un proprio ruolo, in più, testa ogni giorno il nostro per poter mantenere la fiducia che ripone in ogni membro della famiglia. Neanche in famiglia, infatti, per il cane ci sono assunzioni a tempo indeterminato.

In un gruppo costituito da uomini e cani però sorge però un problema, che confligge con la natura del cane: se siamo noi umani a occuparci del cibo, dell’acqua, delle passeggiate, a dire quando si esce e quando si torna a casa, a decidere dove può stare e dove deve riposare, perfino a gestire la sua possibilità di riprodursi, a lui cosa resta? Qual è il suo ruolo?

Se abbaia perché arriva qualcuno magari gli urliamo e ci arrabbiamo, se cerca di difenderci lo rimproveriamo perché non vogliamo che abbai alle persone o agli altri cani, se usciamo in passeggiata con lui poi, non lo degniamo di attenzione, non giochiamo con lui, non andiamo mai a scoprire insieme posti nuovi, passiamo il tempo al cellulare e a casa pretendiamo che stia buono nella cuccia e basta. Che ruolo ha il nostro cane nel nostro branco familiare?

Cambiamo per un attimo prospettiva e cerchiamo di capire chi e cosa è un cane. Mettiamoci nei suoi panni. È un essere sociale, come noi prova emozioni, desideri, necessità di esprimersi, ha bisogno di riconoscimento, di sentirsi parte della squadra. Ha bisogno di sentirsi bravo a fare, non inutile. Se lo teniamo sempre in panchina come si sente?

Voi sareste felici senza fare mai nulla, con qualcuno che vi dice solo “seduto”, “zitto” o “cuccia” tutto il giorno?

Per un cane, avvisarvi se arriva qualcuno è un ruolo; accompagnarvi in passeggiata alla scoperta del mondo è un ruolo; difendervi è un ruolo; collaborare con voi è un ruolo.

Il ruolo però è anche assunzione di responsabilità. Ci sono responsabilità che un cane può assumersi e altre che non regge. Dipende dal suo grado di sicurezza, dalle sue capacità fisiche e mentali, dalla sua età, dalla sua stazza, dalle sue vocazioni, dall’entità del problema che ha davanti, dalle sue risorse di coping, dalla sua capacità di adattamento.

Se da un lato è vero perciò che dobbiamo concedere ruoli al nostro cane, dall’altro dobbiamo avere sempre in mente che concedergli un ruolo che non può sostenere è l’anticamera della frustrazione, del senso di inefficacia e dell’ansia.

I ruoli sono sacrosanti, ma se noi vogliamo essere davvero queste guide autorevoli nel gruppo, i comportamenti di ruolo vanno incorniciati dentro regole, devono avere un inizio, uno svolgimento e una fine. Altrimenti, senza uno stop, un comportamento resta aperto, gratifica il cane ma non lo appaga. Un piatto di pastasciutta, quando lo guardate vi mette voglia di mangiarlo (attivazione delle emozioni e delle motivazioni), mentre lo mangiate vi gratifica (quanto è buono!) ma solo quando lo avrete finito vi sentirete sazi (appagamento).

Inizio, svolgimento e fine. Attivazione, gratificazione, appagamento. Più chiara così la differenza tra gratificazione e appagamento? Senza un segnale di finito non c’è appagamento.

Ora, se il cane mi avvisasse abbaiando che arriva qualcuno, e io gli urlassi come un forsennato di stare zitto, magari minacciandolo, le mie urla lo ecciterebbero ancor di più, togliendogli riflessività e valutazione della situazione. Non rivolgerebbe la sua attenzione su di me. E continuerebbe ad abbaiare in loop.

“Quanto sono bravo ad abbaiare, mi piace abbaiare per cacciare gli intrusi, più abbaio e più divento bravo ad abbaiare per cacciare gli intrusi, più abbaio e più abbaierò.”

Sono le leggi del comportamento. Ma molti le ignorano.

Se io gli dicessi invece con tono calmo e assertivo: “Bravo, grazie, tutto a posto, finito”. E prendessi io la responsabilità di quel che accade, facendoglielo capire soprattutto con il linguaggio del mio corpo, andando io a ricevere l’ospite e chiedendogli di spostarsi dalla porta, dopo un po’ di volte che agissi così, il cane comincerebbe a darmi retta.

Perché? Perché con il “bravo” e il “grazie” ho riconosciuto il suo ruolo e la sua competenza; lasciandolo abbaiare un attimo ho gratificato la sua vocazione protettiva e territoriale (solo un folle può pensare di togliere a un cane qualcosa che è nel suo DNA di specie); con il “tutto a posto, finito” mi sono assunto io la responsabilità dell’azione da quel momento in poi, ho appagato il cane, dandogli indicazione che il suo ruolo è finito: “ora tocca a me, puoi riposare”. Puoi smettere di abbaiare.

Ed è così che ho costruito fra me e lui la collaborazione di squadra: tu avvisi, io vado: tu sei la sentinella, io il braccio armato. Come in un branco. Questo fa star bene il cane. E anche noi.

In più, ho anche costruito fra di noi la mia leadership, la mia autorevolezza, ho coordinato la squadra.

Così un cane riconosce in voi il leader, non urlandogli e mettendogli paura.

Se siete calmi, assertivi, se non c’è agitazione, ansia, allarme, se è tutto a posto, siete rassicuranti e affidabili. Voi riporreste fiducia e ascolto in una persona che grida in preda all’agitazione? Non credo.

Questo vale per qualunque cosa faccia il cane. Che voglia difendervi, che voglia accompagnarvi alla scoperta del mondo, che voglia giocare. Costruire schemi in cui collaborare, ognuno con il suo ruolo. È questo il nostro compito di leader nel gruppo. Dobbiamo essere come gli allenatori: riconoscere i talenti, valorizzarli, ma poi incorniciarli nelle regole della collaborazione.

Attenzione: il cane non ci dà per scontati mai.

Il cane, animale sociale e di branco, ci testerà tutti i giorni per vedere se siamo sempre i coordinatori, se davvero siamo affidabili, autorevoli. Nel gruppo dobbiamo allora esserci, essere presenti, avercelo questo ruolo di allenatori.

E mai dovremmo noi dare per scontato il cane.

Se non ci siamo mai, se lo ignoriamo, se abbiamo sempre altro da fare, il cane può anche decidere che non facciamo parte del gruppo, poiché non abbiamo alcuna funzione al suo interno. Ed è qui che iniziano i problemi.

Cani che ci ringhiano, che ci mordono, che non ci fanno passare, che non ci fanno uscire di casa, che non ci ascoltano, che tirano al guinzaglio o se lo pigliano in bocca loro per coordinarci, che ci montano le gambe.

Siamo noi, con il nostro apparire ai loro occhi come inutili al gruppo, con il nostro non avere un ruolo, che gli abbiamo detto di fare così.

Il ruolo è importante. Cambiamo prospettiva.

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Cani e caldo infernale. Cosa bisogna sapere sui colpi di calore.

In questi giorni le temperature esterne possono superare i 40 gradi. Cosa bisogna sapere se si ha un cane e bisogna portarlo fuori?
I cani hanno un sistema di termoregolazione diverso dal nostro. Sono molto bravi a trattenere il calore ma non a disperderlo. Non hanno una pelle con i pori, come la nostra, per cui non avviene quel meccanismo di scambio termico che si innesca con il sudore che permette il rinfrescamento del corpo. Sudano solo dalla lingua, dal tartufo e da sotto le zampe, in mezzo ai cuscinetti. Pensare quindi che siccome c’è vento in esterno o aria che circola in casa il cane stia meglio è errato: il cane non trae alcun beneficio dalla brezza o da un ventilatore. Serve un condizionatore che abbassi la temperatura.
I cani hanno una temperatura basale di 38,5 gradi a riposo; in movimento, in passeggiata, la loro temperatura sale anche a 39,5 gradi e anche di più se corrono. Se le temperature esterne sono più alte della loro temperatura interna i cani cominciano ad andare in affanno, e se le condizioni non cambiano in fretta rischiano l’ipertermia, o colpo di calore.
Alcuni cani sono particolarmente predisposti al colpo di calore: le razze brachicefale, ovvero quelle che hanno il muso schiacciato, come boxer, carlini, bulldog, soprattutto le piccole taglie, i cani anziani, quelli che hanno patologie cardiache o respiratorie, i cani sovrappeso.
Le cause più frequenti del colpo di calore nel cane sono:

  • lasciare il cane chiuso a lungo in un veicolo al sole, anche se si lascia uno spiraglio nel finestrino, la temperatura sale lo stesso e anche molto rapidamente, anche in un’auto parcheggiata all’ombra.
  • portare il cane in spiaggia nelle ore più calde sperando che farlo stare sotto l’ombrellone sia sufficiente. Il cane negli orari della tintarella resta a casa. In spiaggia con il cane si va al mattino presto e al tramonto
  • far correre il cane per troppo tempo sotto al sole
  • uscire a lungo negli orari centrali delle giornate in cui si rilevano temperature alte

Per effettuare una prevenzione efficace del colpo di calore nei periodi roventi, tenere sempre a mente alcuni piccoli accorgimenti:

  • il cane deve bere spesso e l’acqua, sempre a disposizione, deve essere fresca, non gelata.
  • non uscite mai con il cane senza avere con voi una bottiglia d’acqua ed evitate le ore centrali della giornata.
  • fuori bagnategli la testa spesso.
  • se il caldo è forte e siete obbligati a portar fuori il cane, un minuto prima di uscire mettetelo sotto la doccia fresca e bagnatelo bene gradualmente, partendo dalle zampe e poi tutto il corpo. Chiudetegli le orecchie con una mano mentre gli bagnate la testa per evitare che l’acqua entri nelle orecchie. Uscite con il cane bagnato.
  • una volta fuori evitate marciapiedi al sole: la temperatura dell’asfalto può arrivare a 70 gradi e provocare ustioni e lesioni nei cuscinetti delle zampe, oltre che dolore persistente in passeggiata. Controllate la temperatura dell’asfalto mettendoci il dorso delle dita. Durante il percorso fate camminare il cane il più possibile su aiuole o terreno, e all’ombra.
  • qualunque cane, ma soprattutto un cane di piccola taglia, si trova molto più in basso di voi con il suo apparato respiratorio. Il riverbero del calore al suolo è molto più potente che all’altezza della vostra testa, e il senso di soffocamento che proverà il cane sarà dunque maggiore del vostro, tenetelo a mente e monitorate sempre il comportamento del cane.
  • riducete le passeggiate giornaliere a due, la prima al mattino presto e l’ultima dopo le sette di sera. Se il cane deve fare i bisogni e vi chiede di uscire, utilizzate il sistema del cane bagnato e state fuori, portandovi acqua, solo il tempo indispensabile e all’ombra.

Come ci si accorge che il vostro cane sta per avere o ha un colpo di calore? I sintomi sono questi, in progressione:

  1. Inizialmente manifesta disagio e irrequietezza, ansima, raspa per terra
  2. Quando la sua temperatura interna raggiunge 40 gradi iniziano tachipnea (respiro rapido e affannato) e tachicardia (battito accelerato); il cane si siede con la testa tutta protesa in avanti, la lingua di fuori e la bocca spalancata in modo da aumentare la presa d’aria. Questo avviene perché il meccanismo di compensazione del cane, che suda solo da lingua e naso, sta esaurendosi: il caldo e l’umidità nei polmoni intasano gli alveoli che non trasmettono abbastanza ossigeno al sangue.
  3. Le mucose, lingia e gengive diventano prima di un rosso intenso e poi man mano sempre più cianotiche e viola bluastro.
  4. Il cane diventa apatico, non risponde agli stimoli tattili e verbali, sta a terra e non riesce ad alzarsi, si accascia.
  5. Se la temperatura corporea raggiunge i 43 gradi il cane rischia la vita.

Cosa fare se abbiamo il cane in uno degli stadi di questa progressione?
Finché il cane si muove, sta seduto, ansima ma è reattivo portarlo immediatamente verso acqua e ombra, verificare le mucose, respiro e battito. Bagnarlo e portarlo immediatamente a casa al fresco. Il suo meccanismo di compensazione comincia ad esaurirsi.
Se il cane è a terra e non si muove, non risponde agli stimoli, o sta in piedi ma appare intontito, il suo meccanismo di compensazione è quasi esaurito, portarlo immediatamente all’ombra, in luogo il più fresco possibile, coprirlo di asciugamani imbevuti d’acqua fredda. Inumidire la bocca, non costringerlo a bere perché potrebbe andargli l’acqua nelle vie aeree soffocandolo. Continuate a bagnarlo rinnovando gli asciugamani bagnati con acqua fredda. Lasciare la ciotola dell’acqua a disposizione per quando si riprende e non proponete cibo fin quando il cane non lo cercherà.
Se purtroppo siete arrivati all’ultimo stadio, il cane sta sdraiato su un fianco e non risponde agli stimoli, ansima tantissimo e il battito corre, il suo meccanismo di compensazione è esaurito, portate di corsa in braccio il cane all’ombra, cercate acqua e bagnatelo totalmente, caricatelo in macchina e correte da un veterinario.
Per riprendersi da un colpo di calore un cane può metterci dalle 2 alle tre ore. Chiamate sempre un veterinario mentre cercate di stabilizzare il cane.

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Consigli per gli acquisti

 

Ci sono due idee sulle menti e i cervelli che diamo per assodate. La prima prende origine dalla concezione secondo cui esisterebbe una sorta di scala ascendente delle creature viventi, che vede collocate sui gradini più bassi le creature meno complesse e meno evolute e agli apici quelle più complesse ed evolute. Tale gerarchia si applicherebbe a tutte le strutture dell’organismo, cervello incluso. Vi sarebbe perciò anche una scala ascendente e progressiva delle funzioni mentali, con la sommità occupata dalla nostra specie. La seconda è l’idea che i cervelli servano a darci una rappresentazione veridica della realtà. Le due idee hanno in comune vari aspetti, tra cui quello, ritiene l’autore, di essere entrambe sbagliate. I biologi sanno che per gli organismi viventi non ha alcun significato parlare di specie più o meno evolute. Tutte le specie viventi sono egualmente evolute. La complessità della vita mentale è associata tradizionalmente al fatto che gli esseri umani avrebbero una migliore, più completa rappresentazione della realtà. Non c’è dubbio che il confronto tra le diverse specie riveli capacità differenti. Ma gli etologi hanno compiuto grandi progressi nello studio della comunicazione animale quando si sono resi conto della falsità dell’assunto secondo il quale la comunicazione serve a trasmettere informazioni veridiche. In natura la comunicazione animale serve principalmente per ingannare e imbrogliare.

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