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Cani e parole al vento. Servono più emozioni.

Una ricerca dell’Università di Washington pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences, afferma che il “parentese” aiuta lo sviluppo linguistico del bambino.

Parentese è un termine inglese che deriva da parents cioè genitori, che indica quel modo di parlare che i genitori di praticamente ogni parte del mondo adottano in maniera istintiva con i propri bimbi in tenera età, qualunque sia l’idioma parlato. Non il cosiddetto “baby talk” cioè quel parlare “sciocco” pieno di suoni senza senso che si accompagna alle coccole, ma un linguaggio corretto grammaticalmente, molto semplificato, che usa un tono di voce che tende ad enfatizzare le parole.

Lo studio ha anche rivelato perché il parentese funziona: si credeva che fosse la semplicità del linguaggio a rendere più semplice ai bambini l’apprendimento, invece pare la ragione risieda nella qualità del tono della voce. Toni più acuti e tempi più lunghi, per esempio, agganciano meglio il cervello del bambino, ne catturano meglio l’attenzione, in pratica il bambino è più socialmente coinvolto.

Noi umani, come anche altre specie, annoveriamo fra le nostre motivazioni il maternaggio, cioè quella motivazione che ci spinge a prenderci cura non solo dei nostri cuccioli, ma anche di quelli delle altre specie; tendiamo quindi a usare il parentese anche con gli animali che adottiamo, spesso trattandoli come cuccioli anche da adulti.

Non c’è molto da stupirsi, la maggior parte degli spot pubblicitari in tv utilizza questa tecnica con milioni di persone maggiorenni e vaccinate per cercare di vendergli qualunque cosa.

Così eccoci qua a trattare il nostro cane come i nostri figli. “Vie-ni-quiiii…” scandiamo con tono acuto e gioioso al cucciolo che ci guarda. E spesso funziona. Ma perché?

La risposta probabilmente sta nella correlazione fra vocalizzazione ed emozioni, e questo aspetto riguarda lo sviluppo cognitivo di tutti gi animali, umani e non umani.

Ora, per quanto riguarda gli effetti della voce umana sugli animali, in particolare i cani, diversi studi hanno dimostrato che toni di voce alti eccitano e catturano l’attenzione, toni di voce bassi invece calmano e rilassano.

Osservo spesso persone fare lunghi discorsi al proprio cane, molte di loro assolutamente convinte che il cane capisca ogni cosa che dicono.

È difficile far loro capire che i cani, animali non umani, non hanno sviluppato un linguaggio parlato; comunicano con il proprio baricentro, le posture, la mimica facciale, le traiettorie, le coreografie, gli spazi, i feromoni e il paravocale.

Ed è proprio il paravocale ciò che i cani comprendono meglio dei nostri discorsi.

Le persone che affermano che il loro cane comprende perfettamente qualunque loro discorso, in genere sono molto affettate ed espressive nella comunicazione con il loro cane, colorano di emozioni il loro eloquio con i loro amici a quattro zampe. Per questo il cane le capisce.

A prescindere dall’aver sviluppato un linguaggio parlato, anche noi umani abbiamo mantenuto l’uso del paravocale.

I versi li facciamo anche noi: i mugugni quando ci svegliamo la mattina e ci stiriamo, i borbottii di disapprovazione, i sospiri d’ansia, gli sbuffi di noia, i mugolii di piacere, i ringhi di fastidio, le grida di dolore, le vocalizzazioni di spavento, le interiezioni, e via dicendo, sono tutte espressioni paravocali delle emozioni che stiamo vivendo.

Quando noi parliamo però, queste espressioni sono meno esplicite ed isolate, rimangono nel tono di fondo delle frasi. Diventano il colore espressivo della voce. Sospiriamo una frase, sussurriamo le parole, le scandiamo con rabbia, addolciamo o induriamo il tono della voce, lo alziamo e rinforziamo il nostro eloquio con i gesti. I cani fanno il contrario, rinforzano i loro gesti con il paravocale. Perché la grammatica del loro eloquio è non verbale.

Il cane, quando ascolta la nostra voce, ricerca in essa proprio quel sottofondo paravocale emotivo che colora i nostri discorsi: toni ed enfasi.

E come ho spiegato in altri post, utilizza anche il paraolfatto (l’organo di Jacobson) per sincerarsi che le emozioni che traspaiono dal nostro paravocale siano coerenti con i feromoni che emettiamo.

Dei nostri lunghi discorsi è questa emissione paravocale e paraolfattiva di emozioni quello che afferra, e cerca di associarla ai nostri gesti e ai nostri movimenti per comprendere il significato di ciò che diciamo.

Se infatti restiamo immobili e parliamo come robot, per lui risultiamo incomprensibili, e ci guarda interrogativo con la testa piegata da un lato. Fate una prova.

Alcuni obiettano che i cani possono apprendere il significato di migliaia di nostre parole, hanno una memoria molto buona. Sanno cosa significa pappa, ciabatta, zio Francesco, usciamo, piove, c’è caldo, ecc.

È vero, si tratta però di fonemi comunicativi non universali ma limitati alla relazione fra noi e il nostro cane. I cani associano il suono di una parola a un ente e, se l’associazione è ripetuta, la ricordano.

È un po’ più difficile però che comprendano il significato e la sintassi di una conversazione complessa. Possono saltargli all’orecchio alcune parole che conoscono e che li attivano.

Se io dico alla mia compagna “Non è il caso che domani ANDIAMO AL PARCO perché probabilmente pioverà”, il mio cane in genere si mette a saltellare e scodinzolare. Quello che gli è arrivato è solo “andiamo al parco”. Perché ogni volta che lo ha sentito dire poi ci siamo andati. La negazione iniziale gli è sfuggita come tutto il contesto della frase.

Inoltre, ognuno costruisce patti comunicativi differenti con il proprio cane. Un cane abituato ad associare al fermarsi la parola “stop”, probabilmente non capirà “fermo”. Se però il “fermo” non sarà detto con un tono di voce robotico, ma ci metteremo dentro un po’ di allarme, ecco che forse il cane si fermerà e ci guarderà.

Detto tutto questo, i cani sono eccezionali: sono almeno 36.000 anni che studiano il nostro linguaggio, da quando le nostre specie hanno deciso di condividere la loro vita. Noi in tutto questo tempo, abbiamo cominciato a cercare di capire il loro solo negli ultimi decenni del secolo scorso. Un po’ in imbarazzo dovremmo sentirci.

E allora, come possiamo fare a essere chiari e farci capire meglio dal nostro cane?

Dobbiamo prima di tutto usare i nostri gesti, posture e movimenti, perché se restiamo immobili mentre gli parliamo, il cane non ha nessun parametro non verbale da associare alle nostre parole, o meglio, alle sfumature emotive del nostro paravocale.

E dobbiamo colorare le nostre parole di emozioni.

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