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I diritti dei cani e il paradosso della rana bollita

Oltre il 60% degli italiani ha un cane.

Nella narrazione odierna il cane sta sul divano con tutta la famiglia, non più nella cuccia in giardino come negli spot in bianco e nero e nei cartoni animati degli anni 60, non mangia più ossa, ma buon cibo elaborato dalla scienza, ha diritto a cure, welfare e anche libertà.

Queste cose ci danno la misura di come la considerazione del pet in molte zone d’Italia sia rapidamente cambiata, sancendo ormai il passaggio culturale definitivo da una gestione zootecnica del cane a una inclusiva, di membro della famiglia a tutti gli effetti. Ci si chiede se non sia accaduto tutto troppo velocemente, andando a creare conflitti in alcuni settori della società, culturalmente impreparati a questa svolta.

Forse sì, e lo si arguisce, per fare solo un esempio, dalla difficoltà ad accettare la libertà del cane negli spazi verdi urbani da parte di una fetta consistente della popolazione delle città settentrionali. Nel sud Italia invece i cani gestiti liberi sono una cosa normale, e le persone che girano con il cane al guinzaglio (in genere noi turisti del nord) sono guardate un po’ come strambe.

Molte persone, in qualche modo, si sentono minacciate dalla libertà dei cani. Per loro è accettabile socialmente che qualunque altro animale possa circolare libero anche in città, ma i cani no.

Il cane deve stare al guinzaglio perché l’idea è che il cane sia un’animale artificiale, frutto esclusivo della selezione umana. Ma non è così. Se si leggono le ricerche serie, della popolazione di cani nel mondo, circa 500 milioni, l’80% vive in libertà, e una grande fetta di questi sono cani selvatici, animali come i lupi e le volpi, che se la cavano benissimo senza di noi. La gente da noi non sa nemmeno che esistano, i cani selvatici. Pensa che siano randagi abbandonati dall’uomo. Eppure, i branchi di cani selvatici, non parlo dei randagi, esistono anche in Italia. Lo statuto della Regione Sicilia li tutela quanto l’altra fauna selvatica.

Chi è contrario alla libertà dei cani non lo è per paura.

Chi ha paura dei cani va rispettato. La paura è un’emozione, non un ragionamento, e la paura non si può controllare. Infatti, chi ha paura dei cani si tiene a distanza da loro e dai loro proprietari e non va ad argomentare con loro.

Per quelli che argomentano invece appare essere proprio il fattore libertà a scatenare disagio, l’insulto, la rabbia. E spesso la diatriba spunta proprio nei posti dove è permesso liberare i cani dal guinzaglio. Le aree sgambo non recintate a Milano, per esempio, esistono. Basta leggere i regolamenti comunali. E sia chiaro, prima che prosegua: le leggi e le regole, anche se a volte non ci paiono condivisibili, vanno rispettate. Da chi ha un cane e da chi non ce l’ha.

“I cani sporcano, teneteli al guinzaglio”, “la pipì dei cani fa morire gli alberi”, e via dicendo, i luoghi comuni e le affermazioni senza senso spaziano dal mondo dell’assurdo all’ecologismo militante. Quando il disagio in certe persone non riesce più a contrastare il buon senso delle risposte che gli vengono date, estraggono l’arma finale: “I cani non hanno più diritti dei bambini”.

E resti basito.

Ma cosa c’entrano i diritti dei bambini? Ma chi li ha mai messi in discussione i loro diritti? Non importa, il tema bambini vince su tutto. I bambini hanno diritto a tutto e i cani no. E di conseguenza chi ha un cane non amerebbe i bambini. Sarebbe uno psicopatico.

Sono prese di posizione queste, che rivelano come i cambiamenti culturali che avvengono troppo velocemente generano conflittualità nell’opinione pubblica.

In Italia, soprattutto al nord, siamo passati nel giro di pochi decenni dalla gestione zootecnica del cane, tenuto fuori casa, magari alla catena, all’idea del pet, che colloca il cane fra i membri a tutti gli effetti della famiglia, con conseguente estensione al cane dei diritti umani. Nemmeno tutti poi, a ben vedere.

Nella nostra società antropocentrica, la gestione zootecnica del cane non metteva in discussione la questione dei diritti umani, né poneva il problema di compararli a quelli di altre specie. Ma se le cose cambiano ecco spuntare il disagio.

C’è d’altro canto una difficoltà culturale molto diffusa in questo paese a comprendere che l’estensione dei propri diritti ad altre categorie non mette in discussione la solidità dei propri, nessuno che acquisisce un diritto che non aveva lo ruba a nessun altro che ce l’ha già. I diritti acquisiti restano a tutti.

Però nella storia questa percezione distorta della realtà continua a verificarsi: nei confronti delle donne, dei migranti, delle persone LGBT, delle persone di colore, dei lavoratori, dei credi religiosi. Adesso tocca ai cani. È un classico della chiusura mentale umana.

Il fatto è che le persone, per accettare qualunque cambiamento, hanno bisogno di tempo, tanto tempo.

Quando questi mutamenti avvengono troppo in fretta, la gente reagisce male, si divide, e nascono teorie per giustificare il disagio che non hanno alcun senso logico.

Prova ne è che in certe aree del paese, come le campagne, le montagne, il sud, dove questo cambiamento di considerazione nei confronti dei cani sta arrivando con più lentezza, questi risentimenti fanno fatica ad emergere, come avviene invece nelle grandi città del nord.

C’è quindi una relazione diretta fra la velocità con cui si manifesta un cambiamento e il crescere delle resistenze al cambiamento.

Questi sono i termini del paradosso che stiamo vivendo. Il paradosso della rana bollita. Una rana immersa in una pentola d’acqua fredda che si scalda lentamente sul fuoco, non si accorge che sta per essere bollita, sempre che l’acqua non si scaldi troppo in fretta.

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